Odore di incenso. Le tapparelle abbassate. Il silenzio più assoluto.

 

 

“Mamma? Papà?” – chiamai a gran voce, abbandonando lo zaino sull’uscio della porta.

“Nadir?” – mio padre, Akram, uscì dalla sua camera da letto vestito completamente di nero tanto che non riuscivo ben a distinguere dove finisse la sua figura e iniziasse la penombra.

“Che succede?” – mi affacciai nella stanza e vidi la mamma sul letto, stesa su un fianco, che abbracciava un cuscino.

“Mamma?” – non mi rispose ma le sfuggì un sospiro dalle labbra socchiuse e poi mi accorsi che stava dormendo.

“Nadir, vieni, lasciala riposare”. Mio padre mi strinse dolcemente la spalla, e io lo seguii in cucina, in quell’atmosfera cupa che mi metteva una certa ansia.

Akram prese un bicchiere d’acqua e mi fece segno di sedermi di fronte a lui. Ora che era illuminato dalla luce a neon, vidi i suoi occhi spenti, stanchi, chiudersi e aprirsi svogliatamente; la sua faccia smunta, quasi pallida.

“Papà, che succede?” – chiesi preoccupato, il suo silenzio non faceva che aumentare il mio timore e la mia tachicardia.

Mi disse che era giunto un telegramma da Idlib, la nostra città natia, che diceva che c’erano stati degli attacchi dei ribelli nella periferia e che erano rimaste ferite alcune persone tra cui Hassan, mio zio.

“Quel caprone sta bene, mashallah” – però sentivo che c’era qualcosa che si stava trattenendo dal dire. “Raya è stata ferita da una scheggia di un ordigno, e non ce l’ha fatta”.

Papà mi guardò con una tristezza infinita, con il cuore ridotto in mille pezzi; io non sapevo che fare, né che dire, il mio cervello non riusciva a rielaborare una risposta.

L’unica parola che riuscii a dire, dopo molto, fu: “No”. Mi rifiutavo di credere che fosse morta: lei e lo zio avevano lasciato Idlib, me lo aveva detto, Hassan si era finalmente convinto che non ne valeva la pena di morire per una patria che non esisteva più, le cui sorti erano decise da Stati Uniti e Russia.

“Nadir”

“No, Raya mi aveva detto che se ne erano andati, guarda” – estrassi dalla mia tasca il foglietto che portavo sempre con me (era l’unica cosa di Raya che avevo) e glielo mostrai.

Lo fissò e una lacrima solitaria scivolò lungo la sua guancia, per poi perdersi nel fitto della sua barba.

“Ti ha mentito”

“Non hanno mai lasciato la città, Hassan è malato e non può lasciare casa sua, Raya lo ha assistito ma quando due giorni fa stava tornando a casa dopo aver trovato miracolosamente qualcosa da mangiare, è finita sotto il fuoco dei ribelli e delle forze governative”

Akram si passò le mani sul viso, mentre le sue parole si conficcavano come schegge nella mia carne: perché Raya non mi aveva detto la verità?

Mi sentivo tradito e arrabbiato, e il bello era che non potevo prendermela con nessuno, tanto meno con lei: lei era un mucchio di cenere adesso.

“Nadir” – mio padre si era alzato ed era vicino a me ora. “Vieni qui” – mi sollevò dalla sedia quasi di peso e mi tirò in un abbraccio, che non volevo, ma di cui avevo bisogno.

Mamma dormiva ancora un sonno profondo, e papà mi spiegò che lei era stata la prima a ricevere la notizia della morte di Raya, povera mamma; le lasciai un bacio sulla fronte e andai in camera mia.

Quella sera accesi la TV, non l’accendevo mai, ma in quel momento fu un gesto a cui non diedi peso. C’erano numerose trasmissioni politiche, programmi di intrattenimento, e i telegiornali ovviamente, e ancora una volta stupii me stesso soffermandomi su quelli: parlavano delle recenti calamità che avevano colpito la Romagna, della distruzione della diga di Kakhovka, del femminicidio di Giulia Tramontano, tutti argomenti pregnanti e importanti ma nessuno menzionava gli attacchi a Idlib.

Perché nessuno parlava delle morti siriane? Perché da anni non nominavano più la guerra in Siria? Pensavano fosse finita? O i continui avvenimenti nel mondo non lasciavano abbastanza tempo per parlare dei vecchi conflitti?

Più saltavo di canale in canale, più la mia irritazione cresceva: non tolleravo le risate delle persone nello schermo, né il loro accanirsi l’uno contro l’altro, tutti erano concentrati su un qualcosa di diverso dalla vita di una bambina spezzata da un conflitto.

Volevo parlassero di mia cugina, che con i ribelli e con Assad non c’entrava niente.

Volevo si interessassero della mia terra, per restituircela.

Volevo che quel conflitto finisse, che la Siria potesse finalmente riposare, chiudere gli occhi e iniziare a ricostruire la sua immagine sfigurata.

Volevo che il mondo, coloro che non hanno conosciuto la guerra da vicino, non dimenticassero, che non considerassero la rivolta siriana come un qualcosa di assodato solo perché se ne sente parlare da anni.

Invece, si agisce sempre troppo tardi, ci si dimentica, e passata l’ora più buia si pensa solo a vivere.

Autori: Rebecca Camela

Classe e scuola: 4 M, Liceo Scientifico Benedetto Rosetti, San Benedetto del Tronto, AP

Insegnante di riferimento: Adelia Micozzi