In Uganda, il medico volontario inizialmente è considerato un “mwsungu” ossia uno straniero, ma presto diventa un “rafiki”, cioè un amico. Un amico dei bambini.

Chissà com’è la vita di un medico che ogni giorno mette tutte le sue forze per migliorare e salvare le vite di persone meno fortunate? Bene, siamo qui per raccontarvelo.

Grazie alla testimonianza di uno dei medici, ricostruiamo la giornata tipo di un volontario.
Siamo in Uganda, uno stato povero dell’Africa orientale, in cui la situazione sanitaria ed economica è molto arretrata. Molti sono i medici che provengono da varie parti del mondo per migliorare le condizioni di questo Paese, ne abbiamo intervistato uno e grazie a lui abbiamo conosciuto un po’ di più il loro mondo. Antonio è un ortopedico e dal 2014 si reca in Uganda ogni anno, per quindici giorni, sempre nel mese di Aprile, durante “la stagione delle piogge piccole”, un periodo molto piovoso, ma con poche zanzare. I giorni a disposizione sono pochi e quindi è importante che il medico volontario si concentri su “microaspetti” e si ponga piccoli obiettivi per evitare il rischio di sprecare risorse e energie e per far sì che la sua esperienza lì abbia un senso. Il suo scopo è far crescere gli ospedali locali e far aumentare il numero dei medici che ci lavorano, portare attrezzature, strumenti, esperienza, formazione e conoscenze. Le giornate sono tutte uguali: si sveglia presto e si reca nell’ospedale locale (un complesso di casette basse

una vicina all’altra) con dei particolari “taxi”, cioè motorini abusivi, guidati da persone senza casco e senza autorizzazione, oppure con gli autobus locali, che sono piccoli pulmini da 8 posti. In ospedale svolge la sua attività di medico facendo operazioni o visite per tutto il giorno. Uno dei tanti problemi dell’Africa è il rachitismo, che causa gambe storte e deformazione di arti, molti sono gli interventi chirurgici di questotipo. Dopo il pranzo, Antonio continua le visite fino alle 17,00, quando termina la sua attività di medico. Prima di tornare a casa, trascorre un po’ di tempo insieme ai bambini con problemi e deformità, gioca con loro, regala doni, abbracci, calore e compagnia. È proprio così che da “mwsungu”, cioè “straniero” nella lingua Swhaili, diventa per loro un “rafiki”, cioè un amico.
Verso le 19,00 deve andare via e ritorna nel suo alloggio perché in Uganda fa buio improvvisamente e in mezz’ora si passa dalla luce all’oscurità più profonda e quando fa buio non si può più camminare da soli, perché la povertà è tanta e diventa pericoloso. Così, Antonio cena e va a letto molto presto, perché ci racconta che è importante dormire bene e riprendere le forze, le giornate sono infatti faticose e calde e il fisico di un italiano non è abituato a quel clima e a quelle

temperature, il sistema immunitario è molto più debole e ha bisogno di molto riposo. I quindici giorni passano così pieni di lavoro, ma anche di allegria e di condivisione. In Uganda, Antonio porta attrezzature mediche, farmaci, manuali di medicina e insegna tecniche chirurgiche innovative ai medici locali che non hanno la possibilità di seguire corsi di formazione e aggiornamento. In Italia, invece, torna con i disegni fatti dai bambini che incontra, oggettiartigianali da regalare e il cuore pieno di gioia, con il rischio però di essere travolto dall’Africa: “perché l’Africa ti travolge e se devi lavorare ed essere utile non devi permetterglielo e devi dosare le tue forze e il tuo entusiasmo”. “Il medico volontario in Uganda non è un eroe, non fa un atto di eroismo, né un sacrificio – dice Antonio più volte nel corso dell’intervista – è un uomo comune che mette al servizio degli altri la sua professionalità, ricevendo in cambio una grande e indimenticabile esperienza di umanità”.

di Vittoria Plaia, Giulia Riolo, IC Guglielmo Marconi classe 2^E

Credit: foto di Antonio Marmotti
Fonti: intervista ad Antonio Marmotti