Viviamo in un paese, la Turchia, pieno di rifugiati, che sono tanti… Ma forse non li conosciamo. Proviamo ad accostarci a loro, per scoprire, più che le loro diversità, i loro sentimenti, con solidarietà e senza pregiudizi. Questa è una delle loro storie.

Abdullah, è un ragazzo siriano che, come tanti, è giunto in Turchia quando era molto piccolo.  Quando si trovava in Siria, come dice lui, era troppo piccolo per andare a scuola, ma anche adesso, a 14 anni, non può perché lavora durante la settimana, dalle otto di mattina alle sei di sera. Vorrebbe studiare, ma forse potrà realizzare il suo desiderio quando compirà 15 anni. Ora porta e vende dei sacchi di patate, lava e pulisce i motori delle macchine. Mi racconta che il lavoro è stancante e impegnativo. Abdullah ha 9 fratelli, due dei quali lavorano ed hanno sedici e venti anni.
Parla benissimo il turco, gli chiedo come l’abbia imparato e mi racconta che viaggiare e giocare all’interno di Akyazı (cittadina in cui abita, a due ore di distanza da Istanbul) con gli amici turchi lo ha molto aiutato ad apprendere la loro lingua.

Di guerra ho parlato con Abdullah, il quale racconta con tanti gesti che un giorno da un aereo è stata lanciata una bomba in mezzo alla strada vicino a casa sua. Suo fratello e un amico che si trovava con lui fuori sono stati colpiti e sono morti, mentre Abdullah e il resto della famiglia si rifugiavano in casa. In quelle circostanze, come mi riferisce, molti bambini spesso piangono, tante persone muoiono e tutti sono costretti a vivere in mezzo ai pericoli. Ora Abdullah ha lasciato la Siria, sono passati degli anni, ma dice che le immagini di guerra gli sono rimaste impresse nella mente.

Sono giunti in Turchia a piedi e, prima di passare il confine, hanno camminato per ore, poi hanno usato un taxi per arrivare alla loro nuova casa, con la speranza di trovare un lavoro in Turchia per mantenersi. Ormai vivono qui da 7 anni, abitano tutti insieme in un appartamento ad Akyazı. La situazione, però, è difficile, come afferma Abdullah, la casa è piccola per una famiglia numerosa come la loro di 12 persone e, se dovesse succedere un terremoto, temono che possa crollare. Perciò, prima di rilasciarmi quest’intervista, lui insieme ai suoi genitori si stavano guardando intorno per trovare una sistemazione migliore. Ma, nonostante tutto, dice di essere felice di vivere in Turchia: per fortuna ha degli amici turchi con i quali va al parco, gioca e viaggia. Le condizioni di vita sono migliori rispetto a quelle del passato, ed è felice perché dice che i turchi si comportano sempre bene nei confronti dei siriani e che sono loro fratelli.

Questa è la storia di Abdullah che infonde tristezza, ma è anche piena di speranza e soddisfazione per la sua salvezza. Mentre stava parlando, era possibile immaginare i fatti e le tragedie che mi stava raccontando e calarsi nei suoi panni condividendo con lui profondamente il dolore. Ho cercato di rendere visibili le sue ferite nel disegno che accompagna l’articolo.

Abdullah è stata la prima persona siriana con cui ho parlato faccia a faccia e dopo averlo incontrato ho pensato a chissà quante memorie e storie diverse fossero nascoste nel cuore di milioni di rifugiati. La prima domanda che mi sono posta è stata come sia stato possibile, vivendo nello stesso paese, non aver visto né compreso il dramma che tanti, troppi rifugiati, vivono. È una domanda che vorrei che anche voi vi poneste.

Ognuno di loro ha nella memoria storie dolorose e nel cuore ferite profonde. E può succedere che esse emergano all’improvviso...

Ecco, chiarirà il significato della mia frase precedente quello che sto per mostrarvi: un video in cui un ragazzo chiamato Muhammed con il suo linguaggio corporeo racconta le condizioni e le ferite causate dalla guerra. Muhammed non ha bisogno di parole per mettere in scena, davanti ai nostri occhi, tutto ciò che stanno soffrendo o hanno sofferto le vittime innocenti, i rifugiati con i quali ci incontriamo ogni giorno.

Il video Wonderland, dell’artista Erkan Özgen, è stato esposto in occasione della Biennale di Istanbul del 2017 intitolata Un buon vicinato. La mostra, e nello specifico questo video, rianimano il vero impatto sulla personalità che ha la crudeltà della guerra e ci aiutano a riflettere sul luogo in cui viviamo, sulle persone che vi abitano e sulle loro relazioni.

A quanto ho scritto e mostrato, vorrei aggiungere che Abdullah, con la storia delle sue ferite e delle dolorose condizioni degli altri rifugiati, sta facendo sentire la voce di tutti quelli che, nonostante tutte le sfortune e disavventure, continuano a mantenere viva la speranza. Muhammed, invece, attraverso il suo corpo martoriato, offre una muta testimonianza delle tragedie che si abbattono sugli innocenti. Sia Abdullah che Muhammed condividono le terribili esperienze vissute da tanti altri come loro. Hanno una storia in comune, ma un diverso modo di esprimerla e raccontarla. Le ferite di Abdullah sono invisibili, ma emergono con i vividi racconti, quelle di Muhammed, invece, sono visibili e tangibili. In ogni caso come è possibile restare indifferenti ai loro sguardi, alle loro mute richieste di aiuto?

Nonostante quello che hanno vissuto, tanti rifugiati credono ancora negli uomini, ci chiedono appoggio, un po’ di solidarietà ed è nostro dovere corrispondere alle loro attese. Meritano il nostro soccorso però non solo per il passato, ma anche perché sono uomini, donne, ragazzi che, come noi, vorrebbero vivere, sorridere e avere le giuste motivazioni per andare avanti.

Da dove incominciare per realizzare tutto ciò? Innanzitutto cerchiamo di conoscere le loro ferite, quelle visibili e quelle invisibili. Le loro storie possono aiutare a immedesimarci nelle loro sofferenze e poi a riflettere, senza pregiudizi. Solo allora saremo pronti ad allargare il nostro cuore e le nostre braccia. Eppure questo ancora non basta: bisognerà non nascondere e tacere, ma raccontare, condividere e divulgare. Solo allora, si potrà provocare la riflessione e il desiderio di reagire alle ingiustizie. E così, pur essendo incapaci di cancellare i segni del loro passato, potremo almeno cercare di aiutarli a rimarginare le loro ferite e far vivere loro la primavera, invece dell’inverno a cui, per troppo tempo, sono stati esposti.

Di Inci Korkmaz, classe IIC, Liceo Scientifico italiano Galileo Galilei – Istanbul (Turchia)

PS L’intervista ad Abdullah è stata svolta nel mese di aprile 2021. L’acquarello è stato realizzato dall’autrice dell’articolo.

Fonti:

  • Per chi volesse approfondire la genesi del video di Erkan Özgen, vi consiglio questo video: https://www.youtube.com/watch?v= lDYhYdgNsSs&;t=619s
  • https://bienal.iksv.org/tr/bienal-arsivi/15-istanbul-bienali
  • https://www.internazionale.it/notizie/2013/06/20/differenza-profughi-rifugiati
  • https://youtu.be/FuUz3giIbSg