Solo una manciata di mesi ci divide da quel tragico 22 dicembre 2018 che ha distrutto cose, vite, prospettive, famiglie dell’Arcipelago Indonesiano.

Krakatoa in indonesiano significa “bambino”, eppure questo nome è stato dato a un potente vulcano, capace, con le sue eruzioni e soprattutto con le frane sottomarine da lui causate, di portare morte e terrore tra gli abitanti dell’isola.
Quel giorno le onde anomale nello stretto della Sonda, tra le isole di Giava e Sumatra, erano alte fino a 20 metri e si sono abbattute con violenza sulle località balneari piene di turisti per le festività natalizie. Banten, una delle località più colpite, ha visto danneggiate più di 500 case, 9 alberghi, quasi 400 barche e 60 chioschi di gastronomie lungo le spiagge. In tutto i morti sono stati più di 4000 e più di 10000 i feriti.
Ida Bagus, Ida per gli amici, lavorava in uno di questi chioschi, di proprietà di suo zio: ella si è asciugata il sudore e il sangue dalla fronte e ha guardato sconsolata la distesa di macerie. Sotto quelle macerie era sepolto tutto il lavoro di una vita, tutte le possibilità di migliorare la propria esistenza, tutte le ore passate a lavorare per la felicità degli altri.
Tutto sembrava essere perduto, forse anche il coraggio di ricominciare.
Oltre ad avere spazzato via case ed edifici, questo tsunami sembrava aver strappato ogni possibilità di futuro.
Quello che ha colpito è stata la rapidità, il cambiamento improvviso di prospettiva, che la vita può prendere: un attimo prima è a colori, un attimo dopo in bianco e nero.
Poco distante da lì, sulla spiaggia di Palu, si sono abbattute per prime le muraglie d’acqua, proprio dove si stava svolgendo un concerto rock nel corso del Festival Palu Nomoni.
La maggior parte dei partecipanti è stata recuperata priva di vita dalla spiaggia e dal mare.
Molti corpi sono stati allineati e posati sul lato delle strade e tra i molti feriti c’era anche Hans, che era in vacanza con suo cugino. I due ragazzi volevano soltanto vivere delle vacanze indimenticabili in un luogo magico, all’insegna del puro divertimento.
Tra i due il giovane sopravvissuto porterà per sempre, nella sua mente, impressi il terrore e la percezione di essere rimasto in vita per un puro miracolo.
Sin dall’inizio dell’emergenza, un team di Medici Senza Frontiere si è messo al lavoro per portare soccorso alle aree più colpite, per rispondere all’afflusso di feriti presso le strutture sanitarie, in collaborazione con il Ministero della Salute.
Medici Senza Frontiere ha prontamente collaborato con il personale sanitario locale per la gestione delle priorità dei feriti, per il controllo delle infezioni, i controlli di base e la cernita dei materiali sanitari.
Jacques è uno di loro, un medico che fin dalla mattina presto ha lavorato senza sosta per far fronte ai continui arrivi di feriti e di corpi martoriati. Solo per un attimo ha staccato lo sguardo da quel dolore, pensando che quella situazione avrebbe avuto durata non calcolabile e esiti molto incerti. Ha sentito su di sé tanta fatica fisica e una grande responsabilità umana e professionale.
I nomi che abbiamo usato per queste tre persone sono fittizi, ma le loro storie sono vere e simili a quelle di tanti altri che si sono trovati lì in quel frangente, reali soprattutto sono il dolore e la terribile grandezza di quanto accaduto. Così come è reale la speranza che ha accomunato ognuno di loro, la certezza che solo attraverso l’impegno di ciascuno si saprà ritrovare il modo giusto per riprendere il filo delle proprie esistenze, nel rispetto, questa volta, di una natura che può mostrarsi a volte davvero crudele.
Ci piace ricordare le parole di un grande autore italiano, Dino Buzzati in occasione della catastrofe del Vajont: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui”.
La speranza è altrettanto semplice, altrettanto capace di ricostruire la vita laddove è stata spazzata via.
Allora, nel 1963, in provincia di Belluno, una frana crollò nel lago artificiale formato da un’imponente diga; l’onda di piena sorpassò il ciglio della diga abbattendosi sui paesi sottostanti e provocando più di 2000 vittime.
Ancora una volta, come nel caso del Vajont, si ripropone un problema che esiste dalla notte dei tempi, vale a dire il rapporto tra lo sviluppo della specie umana e la potenza delle forze della natura. L’uomo cerca di sfruttare per il proprio benessere ogni aspetto del mondo che abita e, quando lo fa indiscriminatamente, mette a rischio la propria esistenza ed il proprio futuro. In questo caso infatti lo sfruttamento intensivo delle coste dell’isola di Sumatra non ha tenuto conto della possibilità di una rovinosa eruzione vulcanica e di un conseguente maremoto. Nella sua tragicità possiamo, però, trovare due motivi di speranza in questo tremendo episodio: il primo, più immediato, è la possibilità data all’uomo di trarre una lezione dai suoi errori e, in questo caso, di rendersi capace di rinnovare e correggere il suo rapporto con la natura. La seconda speranza è data dalla capacità di solidarietà e di aiuto che si può e si deve dimostrare nei momenti di massima difficoltà. E’ quello che fanno ogni giorno i soccorritori di Medici Senza Frontiere.

di Ethan Cirillo e Francesco Tedeschi – IIIA – Educandato Statale Setti Carraro dalla Chiesa.