“Un domani vorrei vedere delle persone che aiutino in queste tragedie, sapere che l’umanità non è perduta.”
Così Silvia Maraone, un’operatrice umanitaria che lavora nei paesi balcanici dal 1993, introduce il suo discorso agli studenti presso l’auditorium della nostra scuola.
L’indignazione per le ingiustizie l’ha portata a impegnarsi nel sociale fin da quando aveva diciotto anni, per rendere meno dura la vita dei migranti, cercando sempre il lato positivo là dove la speranza inizia a vacillare. Il suo ruolo principale all’interno delle organizzazioni, che si impegnano a combattere il dolore nel mondo, consiste nell’organizzare i progetti dell’ONG Ipsia (Istituto Pace Sviluppo Innovazioni Acli) e della Caritas serba e bosniaca. Si impegna anche nei lavori manuali, ad esempio il trasporto di sacchi contenenti beni di prima necessità, e nell’animazione; infatti, come lei stessa afferma, tramite l’animazione e il semplice gioco ha l’obiettivo di alleggerire la vita di queste persone. Aggiunge però che in questo lavoro è importante essere distanti, affinché non si rischi di essere inglobati nel loro dolore in tutto e per tutto.
Il compito che più le preme però è l’identificazione dei cadaveri in cui, tramite la “lista degli invisibili”, elenco di persone decedute lungo la traversata della rotta balcanica, ridà un nome a quelle persone che perdono la vita in cerca di un futuro migliore. Se nessun familiare richiede l’identificazione del corpo, senza lasciare né foto né informazioni anagrafiche, i lavori non possono procedere e i corpi vengono seppelliti come “non noti”. Silvia inoltre ci spiega che per affrontare al meglio questo lavoro bisogna essere distaccati perché si rischia di risentire del loro dolore, ma è anche necessario essere determinati per arrivare in fondo al caso e per ridare un nome a coloro che non ne hanno più uno. I casi possono essere molto simili tra di loro ma senza aiuti da parte dei familiari e dati certi non possono essere risolti. Silvia sta lavorando a due identificazioni: sta riuscendo a portare a termine la prima, aiutata anche dalla determinazione della sorella e della moglie del deceduto, mentre sa che dovrà archiviare il caso di un marito morto in mare a causa dello scarso supporto della moglie, che ha subito un trauma durante il viaggio.
La sua preoccupazione, rispetto al resto del mondo, ricade sulle vittime della rotta balcanica che nel 2015 è esplosa come corridoio umanitario, percorso da quasi 850mila persone. Dal 2016, invece, le persone che l’attraversano non superano le 100mila (dati Caritas); tali persone, che intraprendono questo viaggio con una fine incerta per scappare dalle tragedie e per ritrovare i propri cari, non possono però essere lasciate al loro destino ma vanno aiutate con tutti i mezzi possibili.
A causa degli accordi tra UE e Turchia questa rotta è però stata chiusa nei primi mesi del 2016 e i controlli nei confini dell’est Europa si sono intensificati e inaspriti, rendendo così i viaggi di questi speranzosi ancora più difficili e diminuendo le loro possibilità di riuscita.
Tale rotta viene definita dalla Maraone come “rotta assassina”, definizione che potrebbe essere applicata a tutte queste vie; ricorda infatti il caso di Madina, una bimba di soli sei anni che morì investita da un treno mentre scappava con la famiglia. Questo caso ha fatto molto scalpore, ed è impressionante come un solo bambino deceduto faccia più rumore di mille uomini.
Un altro esempio di questa triste realtà è la morte di Aylan, il bambino con la maglietta rossa trovato morto su una spiaggia, che tramite l’Europa cercava di arrivare in Canada, il suo più grande sogno. Questa notizia ha fatto il giro del mondo in poche ore e ha sensibilizzato molte persone, che forse, non immaginavano quanto potesse essere dura la vita.
Parlando sempre di bambini, la nostra intervistata ci cita la storia di Bibi, una bimba di quattro anni che soffriva di problemi neurologici che nel corso del tempo la resero muta e senza l’ausilio delle gambe. Morì poco dopo nel campo profughi perché smise di mangiare e di respirare senza riuscire ad avere delle cure mediche, invano richieste dai genitori e sempre negate dai governi. “Questa storia sarebbe dovuta finire in ogni caso, ma avrebbe meritato una fine più dignitosa.” Così pone fine al suo racconto, lasciandoci spiazzati.
Per ridurre e magari riuscire anche ad evitare queste tragedie, consiglia a noi giovani di non essere mai passivi e di parlare di fronte alle ingiustizie di cui la vita è piena. “Dobbiamo raccontare e ricercare la pace con voce forte perchè siamo tutti uomini dello stesso pianeta.” Con queste parole Silvia ci sprona a raccontare e a non essere indifferenti, perchè essendo uomini abbiamo tutti il diritto di vivere e non sopravvivere.
“Queste esperienze vanno vissute.” Così risponde alla nostra domanda che chiede se mai consiglierebbe il suo lavoro. Sorridendo ci spiega che questa realtà va toccata con mano, perché è in grado di aprire la mente e di riempire il cuore anche con un semplice sorriso, soprattutto se sei tu la causa di queste rare opere d’arte dipinte in dei volti disperati con gli occhi ancora vivi solo grazie alla speranza. La speranza, come cita uno dei numerosi detti universali, è l’ultima a morire ed è forse l’ultima ancora a cui si aggrappano per poter finalmente trascorrere una vita degna di questo nome.

di Arianna Fusco Deris, Ann Jasmine Francis, Matilde Sommariva e Michela Caglio. ITSOS Marie Curie Cernusco S/N. Classi 2ALC-2ALL (classe articolata).