Negli ultimi anni, l’Italia o più in generale l’Europa sta venendo colpita da un importante flusso di migranti proveniente da diversi paesi dell’Africa.
Ormai tutti conoscono l’evento come fatto di cronaca, veniamo continuamente colpiti con numeri di morti in mare, nel nostro bellissimo mar Mediterraneo che sta diventando una fossa comune di individui senza nome e senza volto, di numeri su numeri. Si parla spesso di come fermare la migrazione, come accogliere i migranti, se accogliere i migranti, dove mandarli, ma si parla sempre di loro come una massa uniforme, spesso semplificando troppo l’argomento. L’immigrazione è un elemento fondamentale dell’umanità, e in quanto tale non va fermata, ciò che bisogna fare è aiutare i migranti e dargli alternative. Molto spesso i migranti si trovano costretti a migrare per sopravvivere, e spesso non hanno nemmeno scelta sul metodo di migrazione, perché l’aereo costa troppo e si può solo pensare di andarsene in barcone. Il viaggio di un migrante in questo caso Said, può essere raccontato rispondendo a tre grandi domande: -Perché è partito? Said, nello specifico, si è trovato a dover partire per sopravvivere. Said è congolese e ha 17 anni, e a causa dei frequenti massacri ha deciso di correre un grande rischio, il viaggio per arrivare in Libia, dove prendere il barcone per l’Europa, sperando in un futuro migliore. Viaggia con vari gruppi, attraversando il deserto, varie città, e spesso anche luoghi di guerra illegalmente. Con lui ci sono una decina di persone, persone che come lui scappano da qualcosa di più grande: chi dalla fame, chi da altre guerre, chi da catastrofi naturali, le ragioni sono tante, ma tutti si trovano d’accordo su un punto. Non sono partiti tanto per i problemi da cui scappano quanto per la speranza di trovare un posto migliore, come chiunque che abbia mai deciso di emigrare dalla propria terra natia. La migrazione infatti non deve avvenire solo in casi critici, un essere umano deve essere libero di migrare verso il paese che preferisce, deve poter avere una scelta, quella che spesso i migranti africani non hanno. Il mondo da sempre ha avuto flussi migratori, ed è dalla mescolanza di culture che si è evoluto, basti guardare i Paesi più “evoluti”, gli stessi che anni fa hanno avuto più affluenza di immigrati, e che con gli anni sono riusciti a integrare ogni cultura, nonostante le diversità. Said spera in questo, spera di trovare una società evoluta, che possa fare tesoro della sua cultura e della sua presenza. -Come viaggia? Said si trova costretto ad attraversare tutta l’Africa, per arrivare in Libia. Gran parte del tragitto la fa a piedi. Chilometri nel deserto a piedi sono il prezzo da pagare per la sua vita, e il rischio di non arrivare a destinazione è alto. Ma una volta arrivato in Libia, il viaggio è tutt’altro che finito. Dopo aver pagato con gli unici soldi che aveva gli scafisti, lui e il suo gruppo vengono nascosti in un sudicio ghetto dove sono vittime di violenze, specialmente le donne. La polizia libica però, facendo un blitz riesce a trovare il suo gruppo. Solo pochi di loro riescono a scappare, molti vengono catturati dalla polizia, da cui verranno poi portati nelle famose carceri libiche. Said sa per sentito dire cosa succede in quelle carceri, e sa che tutte le persone catturate, che aveva imparato a conoscere e con cui aveva convissuto, probabilmente non usciranno vive da quelle carceri, dove subiranno delle indicibili torture. Said e i pochi altri, tra cui alcuni bambini, riescono ad imbarcarsi su un piccolo peschereccio colmo di persone. Passano giorni e giorni in mare, senza cibo né acqua, sotto il sole e la pioggia, senza vedere terra all’orizzonte. Vede morire suoi compagni di viaggio, vede donne partorire, vede cadaveri buttati a mare, nel mar mediterraneo che inizia a sembrargli sempre più una bara. Sbarca poi a Lampedusa, dove prova una sensazione di sollievo a toccare terra, e ringrazia di essere sopravvissuto. -E una volta arrivato qua? L’accoglienza si può considerare l’ultima parte del viaggio di un migrante, spesso però, si fa l’errore di sottovalutarla, e di considerare il migrante “salvo” una volta sbarcato. Così non è, Said è in Italia come immigrato clandestino, e inizia a radicarsi in lui la paura di essere rimpatriato. Si trova inoltre vittima di un sistema poco efficace di centri di accoglienza e primo soccorso, di richiesta d’asilo e dei requisiti per richiederlo. Said non conosce ancora la lingua, il che è un ulteriore problema nel relazionarsi in questo mondo diverso, dove molte persone lo guardano quasi con disprezzo per strada, e tutti hanno un atteggiamento di chiusura nei suoi confronti. L’integrazione riguarda sì i centri d’accoglienza, ma riguarda anche e soprattutto i cittadini. I maggiori nemici dell’integrazione sono infatti razzismo e xenofobia, problemi che spesso si possono trovare anche in una classe di scuola elementare. La xenofobia, la paura del diverso, è una paura che l’umanità si porta dietro da sempre. La xenofobia segue un ragionamento semplice: “se non posso sapere che non mi farà del male, potrebbe farmi del male”, e così, innesca una chiusura totale nei confronti dell’altro, senza nemmeno provare a conoscerlo, l’altro. Come dice il rapper torinese Willie Peyote nella sua canzone “Non sono razzista ma”, “Tanto ormai lo sappiamo, è palese: tutto il mondo è Paese”. Con questa frase esprime un concetto semplice: siamo tutti esseri umani, tutti uguali nella propria diversità. D’altronde sono le divisioni a portare alle guerre, nessuno colpirebbe un proprio amico o familiare. Bisognerebbe invece vedere chiunque come un proprio familiare. Said è un personaggio immaginario, creato come esempio di quelle persone verso cui troppo spesso ci scordiamo di provare empatia: gli immigrati. L’empatia è il sentimento più umano, è il sentimento che ci spinge ad aiutare il prossimo, ed è il sentimento di cui abbiamo più bisogno ora. Vogliamo ribadire il concetto chiave: siamo tutti esseri umani, tutti uguali, non ci sono esseri umani di serie a e serie b. Possiamo essere diversi e lo siamo in molte cose, ma abbiamo tutti diritto alle stesse possibilità, abbiamo tutti diritto alla vita. In quanto cittadini, spesso ci sentiamo giustificati per il nostro menefreghismo, ci sentiamo impossibilitati a fare grandi azioni e cambiare le cose, ma così non è. Con un semplice gesto come difendere un ragazzino nero che viene bullizzato a scuola, evitando ogni comportamento razzista, o molto meglio donando una somma alle enti che si occupano del lavoro sul campo come medici senza frontiere, possiamo aiutare. Possiamo essere utili.
di Biscardi Leonardo, Armando Cangelosi, Fazio Gabriele, Mazzola Matteo, classe II C Liceo artistico E. Catalano