Nuova epidemia di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo
“Saranno stati una decina di bambini, dai più piccoli che restavano un po’ indietro perché più lenti, a quelli più grandi che ci raggiunsero in poche falcate. E poi c’era questa bambina, mi ha guardato e mi ha sorriso, ha aperto le braccia e mi è corsa incontro. Voleva salutarmi, voleva toccarmi. Sono saltato indietro e le ho detto di non toccarmi – Don’t touch me! – a una bambina che avrà avuto sei anni. Il suo sorriso è sparito in un attimo, l’ho spaventata ed è scappata via.”
Così gli operatori MSF raccontano Ebola. Una malattia che insegna a creare trincee intorno al proprio corpo. A non fidarti nemmeno delle tue stesse mani, che diventano nemiche. A imparare l’assenza di contatto.
È la seconda peggiore epidemia nella storia dopo la peste. Tocchi e sei morto.
È il 1° agosto 2018 quando viene segnalata l’emergenza di Ebola in Congo. Ben presto l’epidemia si è diffusa e secondo gli ultimi dati sono circa 900 i casi colpiti e 600 le morti, il 40% delle quali avviene per cause di contagio non ancora identificate.
È la decima epidemia di Ebola che si manifesta in Congo, nonché la peggiore dal 1976, quando venne segnalato il primo focolaio. La località dove l’epidemia è sorta è quella di Mangina, paesino del Nord-Kivu, una delle 26 province congolesi. La sua posizione, isolata nella foresta equatoriale, da un lato rende difficile l’intervento dei medici, ma dall’altro ostacola la diffusione del virus, come afferma un testimone MSF.
Gli esperti di Ebola nutrono vari sospetti sul motivo per cui il territorio congolese sia così vulnerabile. La maggior parte delle teorie riguarda le grandi aree boschive del paese e la possibilità che i pipistrelli della frutta infetti, largamente considerati il principale serbatoio della malattia, siano comuni nelle zone colpite.
Chi riesce a superare l’ebola si immunizza al virus. Non si sa quanto tempo duri questa immunità, però si sa che per un periodo abbastanza lungo chi guarisce non viene più infettato. I centri di trattamento MSF partecipano agli studi clinici su quattro potenziali farmaci contro l’Ebola. I trial, che hanno come obiettivo l’individuazione del farmaco più efficace tra i quattro, sono stati avviati lo scorso novembre e potrebbero offrire maggiori possibilità di sopravvivenza. Ma salvarsi dall’Ebola vuol dire tornare in una comunità spaventata, che spesso rifiuta chi è stato malato. Molti pazienti chiedono di essere spostati in un nuovo quartiere, perché da dove vengono non li avrebbero più accolti. Guarire per molti è solo un primo passo, la strada per tornare alla normalità è ancora lunga.
Gli operatori di MSF operano in Congo sin dalla prima epidemia. Tuttavia l’attuale risposta non riesce a raggiungere e monitorare adeguatamente le persone colpite. Inoltre si presenta una contraddizione sorprendente: da una parte l’intervento tempestivo e ampio con nuovi strumenti medici; dall’altra, persone che muoiono a centinaia e gente che non si fida delle cure. I medici vengono visti come intrusi. La gente ha paura di quel furgoncino bianco con la scritta rossa, in cui vengono caricate persone che non tornano più. La malattia si alimenta nelle vie, per le strade… eppure i medici escono di rado dal loro centro, e la gente spesso non sa di cosa si occupano.
Butembo e Katwa sono attualmente gli epicentri di cura dell’epidemia. Il primo può accogliere 96 pazienti mentre il secondo conta 62 posti letto. Dall’inizio dell’attività MSF ha assistito più di 2100 pazienti in questi due centri, con 250 casi confermati e 110 pazienti guariti.
Vige la politica del NO TOUCH. Per evitare il contagio all’interno dei campi ci sono procedure molto rigorose, in genere con assistenza, durante il vestimento e lo svestimento. Tutti gli operatori sono tenuti ad indossare tute, guanti e maschere, ogni tipo di protezione. Una volta che qualcuno esce da un’unità dove c’è rischio di contagio si deve ipotizzare che qualsiasi cosa abbia addosso possa essere contaminata. Nessuno stringe la mano a nessuno, nessuno tocca nessuno per tutta la durata dell’intervento. Piatti e forchette vengono passati nell’acqua clorata prima di mangiare, si accede a cibo sicuro, acqua solo dalle bottiglie ecc. E tornati a casa ventun giorni di quarantena. Questa è la vita degli operatori, raccontata da uno di loro.
“L’Ebola uccide. Non toccate nessuno per strada, non toccate oggetti e non raccogliete niente da terra. Se avete un malessere contattate il più vicino centro sanitario.
L’Ebola uccide.
Se uno dei vostri cari si sente male non lo toccate.
L’Ebola uccide.”
Questi sono gli annunci che si sentono alla radio. La propaganda del Ministero della Salute. Persino la musica dà gli stessi messaggi. Ci sono canzoni rap che passano annunci e allarmi sulla prevenzione dell’Ebola, sull’importanza di andare dai medici e fidarsi di loro.
E poi la continua minaccia: “L’Ebola uccide”.
L’Ebola è una malattia che non fa distinzioni, non guarda chi ha di fronte, uccide e basta. Una sola persona infetta è capace di contagiare un’intera comunità in poco tempo. E il fatto che i media non ne parlino non fa che aggravare la situazione. Ebola ci ha spinto a compiere scelte senza precedenti, a rispondere in maniera estrema. Ha imposto una sola regola: tocca e sei morto. E a quella ci siamo dovuti adattare.
di Alessia Cuomo e Aurora Torelli, Educandato Statale Emanuela Setti Carraro Dalla Chiesa (secondaria di I grado), IIIA
FONTI:
• Intervista all’operatore di MSF dott. Marco Doneda
• Intoccabili di Valerio la Martire
• https://www.repubblica.it/
• http://www.lescienze.it/
• https://www.medicisenzafrontiere.it/