Attualmente esiste una forte disparità sociale, soprattutto fra i popoli dell’emisfero australe e boreale.
Tale situazione porta ad avere nel mondo la contemporanea presenza di persone colpite da una povertà assoluta e di individui dalle ricchezze inestimabili. Questi ultimi non sono disposti a colmare l’enorme divario che può coincidere anche con milioni di dollari di fatturato, come nel caso di coloro che si trovano ai vertici di società importanti di cui Apple, Microsoft e Sony sono esempi noti a tutti.
I magnati delle multinazionali che si trovano nella parte settentrionale del globo sfruttano i paesi più poveri, che hanno la disponibilità di risorse minerarie senza tuttavia avere le capacità organizzative e le attrezzature necessarie a utilizzarle. Queste aree inoltre sono sprovviste di un sistema lavorativo o di sindacati che tutelano i lavoratori, perciò le persone sono costrette a prestare la propria opera senza stipulare dei contratti regolari, senza poter contare sulle opportune misure di sicurezza, esponendosi così per lunghi periodi a ogni tipo di rischio. Cosa ottengono in cambio? Un misero salario di poco meno di un paio di euro al giorno, che non assicura neanche la sopravvivenza alla famiglia di chi riceve questa somma di denaro e che si trova costretto a vivere in balia di individui schiavi della ricchezza.
Una grande attenzione viene riservata nei confronti delle terre africane che possono vantare dei veri e propri poli di attrazione grazie alla presenza di diamanti, oro, petrolio e soprattutto coltan. Questo è un composto minerale, formato da columbite e tantalite, che viene schiacciato e ridotto in polvere fine e nera. Viene estratto in Congo, Nigeria, Etiopia e Brasile; in realtà lo si trova anche in Australia ma, a causa del costo della manodopera, questa parte del mondo non viene presa in considerazione.
Rilevante è in particolare lo scenario congolese dove gli operai vengono impiegati in condizioni disumane, senza alcuna protezione contro le radiazioni che emana il minerale, con conseguenze devastanti a livello epiteliale, sessuale e tumorale.
I lavoratori che si occupano dell’ estrazione del coltan non sono soltanto adulti in quanto nelle miniere confluisce un gran numero di bambini. L’abitudine di sfruttare i minori purtroppo è in realtà radicata, non riguarda un’unica zona del pianeta, assume diverse fattezze, si afferma nei più disparati settori produttivi e spesso è correlata all’ impossibilità di coltivare una vera e propria crescita formativa.
Non si riesce a comprendere con precisione il momento in cui ha avuto origine il fenomeno dello sfruttamento minorile, anche se già nell’antichità sono presenti numerosi riferimenti relativi all’utilizzo di bambini schiavizzati nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento. Con l’avvento della seconda rivoluzione industriale, i capitalisti si sono approfittati su larga scala del lavoro dei più piccoli e talvolta il riconoscimento economico è stato talmente ridotto da non consentire l’ acquisto del cibo. Quello che colpisce è che i bambini sono sempre i più vulnerabili, sia perché sono privi di tante conoscenze sia per la loro costituzione fisica.
Ritornando al tema dell’estrazione del coltan, si può innanzitutto osservare che, secondo i dati raccolti dall’UNICEF nel 2014, circa 40 mila bambini vengono impiegati nelle miniere. In questi ultimi anni Amnesty International ha inoltre messo in luce il reclutamento di ragazzini con un’età media di 7 anni. I più piccoli devono lavorare 12 ore al giorno e pertanto non hanno un trattamento di favore rispetto ai grandi. Da rimarcare che vengono costretti, anche con il ricorso alla forza, a trasportare pesi ingenti che possono raggiungere i 20 chilogrammi e, in alcuni casi, i 40 chilogrammi. Per quanto concerne la retribuzione, le fonti propongono dati diversi. Si può tuttavia riflettere sul fatto che, se quella giornaliera di un adulto può aggirarsi sui 2 euro, quella dei più giovani pare arrivare al massimo ai 50 centesimi.
Piuttosto significativa la testimonianza di chi registra la presenza di quattordicenni che lavorano in miniera continuativamente da due anni, giungendo persino a riposare all’interno dei tunnel. Dato il contesto, hanno i polmoni già a pezzi. I dispositivi di protezione individuale non vengono loro forniti e pertanto il rischio di tumori appare molto elevato, tanto da essere una delle più frequenti cause di morte. Molti minatori alle prime armi perdono la vita anche per le frane, i crolli o per i maltrattamenti subiti dalle guardie di sicurezza nel momento in cui tentano di oltrepassare i confini della miniera.
Di fronte a questo panorama, è spontaneo domandarsi quale sia il ruolo di alcune organizzazioni come l’ONU: spesso se ne sente parlare, ma non sappiamo nel dettaglio cosa stia facendo concretamente, sia per un nostro disinteresse sia per la mancanza di occasioni di approfondimento alla nostra portata. Sappiamo che il suo obiettivo è quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, che si impegna a far rispettare i diritti fondamentali dell’uomo, a favorire i rapporti tra le nazioni e a promuovere il disarmo. Sappiamo che cerca di realizzare i suoi scopi istituendo fondi ed emanando protocolli che vengono rispettati dai suoi membri. Nonostante tutti questi propositi, le guerre persistono e l’ONU, assieme ad altre associazioni, non riesce a garantire la serenità, basti pensare alla gestione dei rifugiati di cui spesso si sente parlare in Europa e, soprattutto, in Italia.
Noi che cosa stiamo facendo per arginare i tanti comportamenti negativi che si diffondono nel mondo? Siamo una parte attiva o ci è più comodo delegare tutto?
Noi giovani possiamo e dobbiamo fare qualcosa. Solo noi possiamo cambiare le sorti del nostro futuro, partendo sicuramente da una maggior sensibilizzazione su questi temi. Dobbiamo cogliere le occasioni, come quella offerta da “Youngster”, ossia un progetto di promozione alla lettura che ci ha consentito di riflettere anche sui danni sociali, economici, psicologici e fisiologici causati dai dispositivi elettronici di telecomunicazione. Durante uno degli incontri è emersa una figura di spicco: il signor John Mpaliza, il quale in passato ha organizzato delle marce di protesta e degli interventi per informare le nuove generazioni sulle realtà di sfruttamento e di illegalità morale che esistono ancora oggi. In merito al problema del coltan, un consiglio utile proposto riguarda il controllo della tracciabilità dei materiali in modo tale da venire a conoscenza del luogo di provenienza degli stessi, evitando quindi di effettuare acquisti che andrebbero a finanziare mercati macchiati di sangue.
Cercheremo di fermare al più presto questo fenomeno drammatico impegnandoci a conoscere più a fondo l’operato delle varie organizzazioni umanitarie e a utilizzare in maniera più consapevole gli strumenti tecnologici a nostra disposizione, pensando a tutto quello che si nasconde dietro lo smartphone di ultima generazione che teniamo fra le nostre mani.
L’ importante è che questo proposito sia collettivo poiché, come recita un proverbio del Congo, “un solo dito non può sbucciare una banana”.
di Andrea Bruschina, Damiano Buzzolo, Samuele Cocetta, Raffaele Comellato, Simone Di Fede, Samuele Gheller, Alessio Lusa, Marco Mason, Fabio Mian, Nicolas Nardini, Emanuele Peruzzi, Davide Petrillo, Enrico Pinatto, Nicolò Pitta, Alessio Sguassero, Denis Turchetti – ISIS BASSA FRIULANA – CLASSE 2E MEC