In Myanmar si trova una delle popolazioni più povere di fede musulmana: i Rohingya.

Il paese in cui risiedono si trova nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Le loro condizioni sono sempre peggiori tanto che non vengono riconosciuti come cittadini birmani, infatti li considerano dei bengalesi musulmani arrivati con la colonizzazione del XVII.Non hanno il permesso di spostarsi liberamente all’interno del loro paese e vivono in campi sovraffollati fuori dalla città di Sittwe, capoluogo del Rakhine.
Il governo birmano, ha affermato che la Birmania “non ha concesso alla missione Onu di entrare nel Paese, ed è per questo che non concordiamo e accettiamo qualsiasi risoluzione fatta dal Consiglio per i Diritti umani” e che la tolleranza nei confronti di questa popolazione è pari a zero.
Per difendere i Rohingya, il governo di Yangon ha ribattuto al rapporto delle Nazioni Unite dicendo che sono stati compiuti genocidi nei confronti della minoranza islamica, a seguito dei quali oltre 700 mila persone sono state costrette alla fuga

Aung San Suu Kyi

Aung San Suu Kyi è una politica birmana, che lavora da molti anni nella difesa dei diritti umani in ambito nazionale. Lei ha ricevuto, nel 2009, il premio Nobel per la Pace,
Molti ritengono che le si debba ritirare questo premio perché non ha mai proferito parola a seguito di tutte le ingiustizie che i Rohingya hanno dovuto subire. In sua difesa afferma che, la repressione militare, è stata una risposta corretta e proporzionata alle azioni di questa popolazione. Amnesty International, ha seguito di ciò, ha revocato l’onorificenza di Aung San Suu Kyi.
Oggi la situazione è in profondo cambiamento, infatti Suu Kyi potrebbe essere accusata pesantemente perché è rimasta in silenzio a seguito delle persecuzioni.
Il segretario di Amnesty International ha affermato: «Siamo profondamente costernati nel vedere che lei non rappresenta più un simbolo di speranza, coraggio e difesa dei diritti umani»

Donne Rohingya stuprate
I soldati birmani hanno commesso un numero esagerato di violenze nei confronti di questa popolazione: uccisioni indiscriminate, incendi di interi villaggi… Però il maggior numero di violenze sono state commesse sulle donne.
Maggio del 2018 è stato il mese più complicato, infatti sono passati ben nove mesi dall’inizio di questo terribile episodio e le donne rohingya hanno iniziato a partorire. Molti di questi bambini, come ci ha informato Save The Children, sono stati abbandonati dalle loro madri, perché, vivendo in quelle condizioni, non avevano le risorse economiche necessarie per poterli mantenere.
Gli ospedali nei campi della provincia di Cox’s Bazar, sono gestiti da Medici Senza Frontiere, i quali si occupano di prestare aiuto alle giovani donne stuprate, diventate, ormai, madri. Molte di queste hanno meno di diciotto anni e non possiedono nessun elemento che permette loro di far vivere una vita dignitosa ai loro bambini, oltre al fatto che non sono pronte psicologicamente.
Queste povere donne hanno cercato, fin da subito, di interrompere la loro gravidanza, però questo non è stato possibile perché non hanno ricevuto l’assistenza sanitaria di base.

AyeshaAkhtar: una donna vittima di stupro
l Guardian ci ha informato del fatto che nei campi profughi sono nati alcuni bambini nati dopo che la donna ha subito una violenza.
Circa un anno fa, AyeshaAkhtar, nome di fantasia creato per proteggere l’identità della donna, si è ritrovata incinta. Qualche settimana prima, Ayesha aveva raccontato che tre soldati birmani erano entrati di forza nella sua casa che si trova a Rakhine e l’avevano minacciata di sparare ai suoi figli, per poi violentarla.
Ora Ayesha è una madre di cinque figli, rimasta vedova perché il marito è morto nel 2012 e lei si trova ad abitare in un campo profughi in Balukhali. Ayesha ha detto che aveva cercato di nascondere l’accaduto, senza però riuscirci: «Tutti sapevano che i soldati commettevano gli stupri quando facevano incursione nei villaggi», ha raccontato. Per interrompere la gravidanza, Ayesha ha provato dei “farmaci” consigliati da un medico del suo villaggio che però non hanno avuto l’effetto sperato. La donna dice: «Cercare aiuto per interrompere la gravidanza è molto difficile per una vedova nella nostra società. Ho smesso di cercare un modo per interromperla e ho lasciato tutto nelle mani di Allah».
Ayesha, come altri circa 700 mila Rohingya, era fuggita verso il Bangladesh. Una volta arrivata nel campo profughi, aveva poi cercato aiuto per abortire, ma a quel punto era troppo tardi perchè la legge del Bangladesh proibisce l’aborto dopo il primo trimestre. Ayesha era già stata avvertita dai medici che un aborto clandestino le avrebbe potuto provocato dei gravissimi rischi per la sua vita, così si decise di non rischiare perché non poteva lasciare gli altri suoi figli.
Lo scorso 26 gennaio, Ayesha ha partorito, ma il bambino ha portato scompiglio all’interno della famiglia perché due delle figli di Ayesha le hanno detto che per loro non era un vero fratello e lo volevano mandare in orfanotrofio. Inoltre, anche un rifugiato che vive nella stessa zona di Ayesha, ha affermato che il bambino era visto da molti con diffidenza mentre altri hanno sostenuto la donna. Alle sue figlie Ayesha ha spiegato questo: «Ho detto loro che questa gravidanza è stata forzata, e tutto il mondo lo sa. Non avete motivo di sentirvi imbarazzate o di provare vergogna». Dopo le parole della madre, le ragazze hanno ripensato a quanto successo e stanno valutando l’idea di accogliere il bambino in famiglia. Esse ora si dedicano più al piccolo, giocandoci.
Medici Senza Frontiere afferma di essersi occupato di 224 vittime di violenza sessuale fino al 25 febbraio, ma ha ammesso che ce ne sono molte altre che non hanno cercato aiuto, infatti molte donne che hanno subito violenze sessuali non lo hanno riferito alle autorità, o ai gruppi di aiuto del paese.

I Rohingya non vogliono tornare in Myanmar
Nell’agosto del 2017 è iniziata la crisi che ha colpito gran parte dei Rohingya. Questa è scoppiata a causa di scontri avvenuti tra questa popolazione e l’esercito birmano.
Nelle settimane successive, circa 700 mila persone sono scappate dal Myanmar, lasciando la casa, la famiglia e gli amici, per andare a trovare rifugio nei campi profughi vicino Bangladesh.
Purtroppo, al giorno d’oggi, i Rohingya stanno scappando anche da questi luoghi, perché hanno un’infondata paura di essere rimandati nel loro paese. Per loro fortuna, molti gruppi per la difesa dei diritti umani si sono schierati in loro favore, affermando che il loro ritorno a casa non è affatto sicuro.
Mohammad Ismail è un uomo di 50 anni che vive con la moglie e i suoi sei figli nel campo profughi di Jamtoli, in Bangladesh. Lui, una volta venuto a conoscenza della lista dei rimpatri, è stato intervistato dal Guardian. Le sue parole sono le seguenti: «Ho detto che ero troppo spaventato per tornare in Myanmar nella situazione attuale, perché è ancora molto pericoloso per tutti i rohingya». E ancora: «Sono molto spaventato al pensiero che la polizia del Bangladesh ci costringa ad attraversare il confine. Se provano a costringerci a tornare indietro, penso di dovermi suicidare. È meglio suicidarsi che andare in Myanmar senza una garanzia di sicurezza».
Le sue parole sono del tutto vere, infatti, qualunque persona torni in Myanmar, non potrà essere certa per la propria sicurezza e libertà. Inoltre, è possibile che le condizioni di vita che i Rohingya troveranno una volta costretti a tornare nel loro paese, saranno peggiori rispetto a quelle che avevano lasciato.Nonostante questo, il ministro degli Affari sociali del Myanmar, Win Myat Aye, ha affermato che gli arrivi dei Rohingya saranno limitati a zone specifiche e che questi saranno mandati prima in un campo profughi. Inoltre, per aiutare chiunque di loro avesse perso la casa, ci saranno delle residenze temporanee a disposizione.
La situazione dei Rohingya, ancora oggi, non è migliorata, tanto che vengono definiti come un “peso” dagli popoli presenti in quei luoghi.
“Il mondo fermi questo genocidio”.

di Siria Cristiani, Andrea Agawin, Sara Natalini, Eleonora Bordoni, Agnese Ciavattini, 3As, IIS Savoia Benincasa