I campi profughi dovrebbero essere una possibilità di salvezza per le persone che scappano disperate da situazioni di povertà e guerra, ma si sono rapidamente trasformati in un Limbo senza redenzione.

Un esempio è Kakuma, uno dei più popolosi ed antichi dell’Africa.
Nel 1992 sorse una tendopoli in Kenya per i profughi della guerra civile in Sudan, chiamata Kakuma. La tendopoli, nel corso degli anni, si è espansa raggiungendo le dimensioni di una megalopoli (30 volte Parma) e le condizioni sono sempre più precarie.
Per esempio, la distribuzione dell’acqua, che avviene solamente per due ore al giorno.
L’acqua, ovviamente, è sporca e sorgono spesso conflitti tra le persone in fila anche da parecchie ore. Siccome l’acqua disponibile è poca bisogna decidere se usarla per bere, cucinare o lavarsi. Nonostante tutti i servizi siano gratis sono quel che sono: il cibo sembra mangime per animali quindi i bambini sono malnutriti e, ovviamente, la mortalità infantile è molto elevata. Il problema principale è la mancanza di vitamine e l’ospedale non può aiutare siccome è a corto di medicinali, personale e competenze.
Sembra che solo il più forte sopravviva, o meglio, il più fortunato, quello che riesce per primo a prendere l’acqua o chi è abbastanza forte da resistere alle innumerevoli malattie che sono presenti in Kenya.
La speranza però è dura a morire, le persone sperano ancora di poter uscire da questo Limbo, non solo per loro stesse, ma anche per la loro famiglia e i loro figli.
È questo che fa andare avanti molte donne dei campi profughi nel mondo e tra di loro, alcune forti dell’appoggio di un personaggio del calibro di Malala come testimonia il suo ultimo libro “Siamo tutti profughi” dove raccoglie alcune testimonianze di profughe da tutto il mondo.
Uno dei campi visitati da Malala è Zaatari, in Giordania, nato per accogliere temporaneamente gli sfollati siriani nel 2012, dove ha incontrato Muzoon, una ragazza che crede nell’istruzione.
Raccontò la sua vita a Malala, di come lei e la sua famiglia furono costrette a scappare nel 2011, quando scoppiò la guerra e la situazione era diventata insostenibile. Le raccontò della paura di abbandonare la vita da sempre conosciuta, una situazione molto simile a quella vissuta dalla Malala sfollata interna in Pakistan.
I membri della famiglia di Muzoon raggiunsero il campo di Zaatari in Giordania e ricevettero un angusto riparo, una tenda di tre metri per tre, ma si ritenevano fortunati di averne una. Per dormire avevano solo alcuni materassini, niente elettricità o comodità moderne. Nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli, lei continuò a desiderare di andare a scuola per avere un futuro migliore. Non credeva, infatti, che il soggiorno sarebbe durato poco; la sua predizione, purtroppo, si rivelò vera e molte ragazze sono ancora in quel campo, come in una specie di prigione, mentre lei è riuscita a continuare a studiare anche grazie alle parole di Malala.
Malala ha incontrato un’altra donna, la cui storia ci ha colpiti perché molto drammatica, addirittura più delle altre. Lei e la sua famiglia hanno scampato l’enorme pericolo di una persecuzione religiosa. Ajida, infatti, fa parte di una minoranza mussulmana nel Myanmar, un paese a maggioranza buddhista, da cui furono costretti a fuggire nell’agosto del 2017.
I Rohingya scappano in Bangladesh, dove sono autorizzati a sostare, ma una legge vieta loro di integrarsi, togliendo qualsiasi prospettiva per il futuro. La pena per i trasgressori è l’arresto. Nessuno sa cosa succederà, neppure Ajida, scappata col marito e i figli quasi due anni fa quando, per la prima volta, avevano sentito il boato degli spari. I militari erano tutt’altro che portatori di speranza: violentavano donne e ragazze, appiccavano fuoco alle case ed uccidevano gli uomini. Per evitare tutto ciò, si rifugiarono nella foresta con la speranza di poter tornare al villaggio dopo pochi giorni, ma purtroppo non fu così. La situazione peggiorò e li costrinse a mettersi in viaggio con altre 300 persone. Arrivarono al campo dopo un viaggio in barca sul fiume che li separava dal Bangladesh. Passarono la prima notte in un enorme spazio aperto gremito di gente, ma il giorno dopo furono trasferiti in un altro campo. Lì, Ajida venne assunta da un’associazione che lavorava nel campo affinché costruisse dei forni per altri profughi. Ne ha realizzati più di duemila, ancora oggi, il futuro incerto, la speranza è l’ultima a morire anche davanti all’indifferenza dei governi e delle persone.
Abbiamo scelto di parlare delle donne profughe per due ragioni principali:
-non pensavamo che la situazione fosse così critica, infatti ai telegiornali si parla solo di quello che interessa anche l’ Italia, trascurando completamente le problematiche degli altri Paesi;
-ci ha stupiti il coraggio di queste ragazze che, nonostante tutto, trovano la forza di continuare a sperare e di andare avanti.
Ci auguriamo, ovviamente, che la situazione possa migliorare, ma questo non può assolutamente avvenire senza la consapevolezza di tutte le persone disposte a collaborare anche prima dell’intervento dei governi. Se non riconosciamo che c’è un problema, come possiamo pensare di risolverlo? Dobbiamo cercare anche noi di essere coraggiosi come Ajida, Muzoon e Malala.

di Irene Cimadoro, Any Maria Perego, Marco Brenna, classe III B Istituto comprensivo “Carlo Porta”

Fonti:
Siamo tutti profughi, Malala Yousafzai, Garzanti,2019
Africa, numero 4 2015